L'ESPERIENZA CORONAVIRUS - APRILE
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Ecco i primi contributi dei soci ai quali abbiamo chiesto riflessioni sull'esperienza di vita in questo periodo di emergenza

 

APRILE

Il primo giorno è uno scherzo, ma quest’anno nessuno ha voglia di farne. Siamo ancora in piena emergenza; quella sanitaria sembra lentamente rientrare ma quella sociale sta esplodendo oltre ogni misura.

Tutti si sentono sufficientemente esperti per fare previsioni e, se dai canali ufficiali - magari con qualche contraddizione - arrivano notizie che vogliamo credere realistiche, c’è tutto il sottobosco di chi ne sa più di altri e si lancia quotidianamente in congetture che confondono. Per quelli che navigano sui social, o anche semplicemente condividono chat su WhatsApp, c’è un repertorio di immagini e video che ciascuno poi fa circolare: la giornata passa anche con gli avvisi del cellulare che sta arrivando un messaggio - che viene prontamente condiviso - o postando commenti o squarci di vita quotidiana.

Molti di noi riescono a lavorare da casa ed è una fortuna, come per chi ama leggere e solitamente non riesce a farlo. Chi non ha recuperato dalla libreria “quel” libro che ha messo da parte per tempi migliori: ecco, “i tempi” non sono dei migliori ma “il tempo” per la lettura e l’approfondimento ora è stato un po’ ritrovato. E potersi sedere in poltrona ad ascoltare musica o goderci un film?

Quanto riusciamo a dedicare a noi stessi, ai nostri interessi o introspezioni, è il bicchiere mezzo pieno di questa vita mutata; quello vuoto è il dramma economico-sociale che ingigantisce, è il senso di paura costante, è l’angoscia che accompagna le notizie di chi si ammala o soccombe, è la mancanza di contatti fisici o, magari per alcuni, l’eccessiva “convivenza” che talvolta fa emergere conflitti latenti.

“Ogni generazione ha avuto la sua guerra”, ci dicevano i nostri “vecchi” e quelli nati dopo la seconda pensavano di averla scampata. Ma avremo anche noi la nostra da raccontare e le storie avranno analogie, come la lotta senza armi adeguate e gli eroi in prima linea, la paura, i bollettini quotidiani, le code per la spesa, la povertà che un tempo chiamavano miseria, i caduti persi senza il conforto di una carezza dei loro cari.

Ecco, ci sarebbero tante altre riflessioni da fare ed è davvero prezioso fermarsi per “pensare”. Facciamolo ora, rimanendo per quanto possibile in casa, perché poi dovremo ributtarci nella quotidianità per affrontare il mondo cambiato mettendo in campo tutte le nostre risorse: ci sarà bisogno, dopo un lungo periodo in cui ci siamo dedicati anche noi stessi, di guardarci attorno e inventarci soluzioni, perché quello che ci aspetta è la ricostruzione di un tessuto sociale, oltre che economico, ripartendo quasi da zero.

Aprile, primavera: il bicchiere tutto pieno è questa fantastica stagione che ci regala giornate meravigliose e cieli fantastici, lune gigantesche, il nostro lago immobile, i colori brillanti. Perché noi ci siamo fermati e la natura ringrazia.

Angela Corengia

 

UNITI DA UN COLLEGIALE DESTINO

Guardo fuori da un terrazzo di casa e vedo che le piante stanno fiorendo, il sole splende, Pasqua sta per arrivare. Dalle strade arriva il rombo delle auto, di lontano il lago è una lastra di cristallo, sui prati passeggiano i soliti accompagnatori di cani che zampettano, cammina pian piano qualcuno che regge i sacchetti del supermercato. Poca gente, ma fin troppa per la minaccia invisibile che circola nell’aria. Tutto sembra (quasi) normale, niente è normale davvero. Ci toglie il respiro l’incubo delle troppe persone defunte, straziate dal male, senza aver avuto il conforto dell’ultima carezza dei propri cari.

Tutto questo illusorio scenario primaverile non può nascondere che un’intera generazione di testimoni dell’Italia postbellica è stata spazzata via, d’un tratto. Già, ma erano anziani, è stato osservato subito dai solleciti commentatori, quando la conta delle vittime cominciava ad essere pesante. Toccava a loro andarsene, prima dei figli, nipoti e pronipoti. Così nessuno ormai può raccontare quello che gli incanutiti avevano appreso dai loro genitori circa i milioni di morti (milioni, non migliaia) abbattuti da una micidiale ventata di un virus influenzale, la cosiddetta “spagnola”, che aveva falcidiato la popolazione mondiale. E poi, dicevano calcando la voce sui particolari più truci, che cosa avevano provato da bambini sotto il dominio nazista, con la fine della guerra e il crollo della repubblichetta di Salò, l’esecuzione dei gerarchi fascisti sulle sponde del Lario. Nemmeno potranno più rievocare gli anni del recupero di un paese a pezzi, le speranze di una recuperata libertà sociale, il miraggio, ahimè fallace, di un’Europa unita, capace di tener testa alle grandi potenze, in grado di far fronte comune alle necessità di ognuno.

Un passato tumultuoso, ricco di episodi, di recuperi e di fecondi inviti alla solidarietà nel momento dell’aggressione rivoluzionaria, del panico per gli attentati terroristici, di un raggiunto benessere che però non è riuscito a soddisfare tutti e delle ristrettezze economiche sopravvenute agli sprechi. Che passato da comprendere, da riassorbire ma comunque da tener presente per non commettere gli stessi errori e rinsaldare gli affetti, le alleanze, i buoni propositi di solidarietà. Quelli che sono stati protagonisti o semplici astanti di tanta storia comune non ci sono più, siamo rimasti soli e inermi a subire l’improvviso assalto di un morbo che non conoscevamo e forse è soltanto l’avvisaglia che ne seguiranno di simili, magari anche più potenti, ad abbattere la nostra incosciente sicurezza di essere preparati a qualunque guerra contro l’ignoto. Ci ha denudati, umiliati, costretti a rinchiuderci nei nostri abituri per scampare alla strage, mentre nei presidi sanitari che credevamo imbattibili, generosi operatori sacrificavano la loro vita.

Certo, è Pasqua, chi ha fede e anche chi non ne ha si affida ad una implorata resurrezione, alla salvezza degli scampati, ad una ritrovata umanizzazione dei comportamenti, alla rinuncia finalmente di scontri e denunce reciproche di una dirigenza politica settaria e rancorosa. Il silenzio, la riflessione, il tupertu familiare in casa propria dovrebbe produrre almeno il ricorso al buonsenso, all’equilibrio, al rispetto delle opinioni, per affrontare insieme il tracollo economico, l’impoverimento che questa sciagura ha prodotto dovunque. Un solo dubbio mi tormenta, partecipando al pacificante augurio pasquale: che il rinchiudersi fra le pareti domestiche ci abbia indotto a considerare la realtà come una finzione dei media, correggibile spostando sguardo, pensiero e sentimenti come se fossero opera di una regia occulta. Come se il male, il dolore provenissero sempre da altrove, senza il nostro intervento. E se fosse possibile allontanarlo come uno spettacolo in cui siamo estranei, un pubblico da platea popolare.

Lo schermo televisivo, quest’occhio prolungato su ciò che accade fuori dalla nostra presenza, e che in casa apre una finestra sul mondo, potrebbe averci abituato ad evadere o a rinchiudere fatti e persone in un’orbita rappresentativa artificiosa, disumanizzante. E’ così che abbiamo accettato impavidi la visione delle corsie di ospedali invase dai letti dei sofferenti, o le drammatiche file di bare avviate all’incenerimento. O abbiamo subìto le insistite, replicate fino all’esasperazione, enumerazioni quotidiane di colpiti dal virus. Od ancora, più di qualunque altra occasione, ci siamo emozionati assistendo alla desolata, accorata preghiera di Papa Francesco in una piazza San Pietro flagellata dalla pioggia, davanti ad un Crocifisso immobile che pareva vivo e sanguinante, uomo prima che Dio, immolatosi per la nostra salvezza. Spettacolo anche quello, governato dalla perizia dei cameramen? Guai a non sentirsi, in quel momento, partecipi veri di una cerimonia dedicata ad un momento epocale, in cui c’eravamo tutti, proprio tutti, uniti da una fratellanza universale, da un collegiale destino.

Alberto Longatti

 

IL PANGOLINO INNAMORATO (LA VERA STORIA DELLA NASCITA DEL VIRUS COVID 19)

“ Su un campo di grano che dirvi non so un dì Paperina col babbo passò e vide degli alti papaveri al sole brillar e lì s’incantò….. disse papà, papare i papaveri come si fa? “

“ Non puoi tu papare i papaveri, disse papà, sei nata paperina che cosa ci vuoi far? “

Questa è la storia, famosa negli anni ’50, che ha reso immortale il ricordo di una papera innamorata e del suo babbo che, mostrando una grande saggezza saggezza, impedì un amore contro natura salvando così l’umanità da una tragica pandemia a metà dello scorso secolo.

Questo in Italia ma … in Cina?

Purtroppo anche nell’estremo oriente l’amore è cieco; negli ultimi mesi dell’anno scorso un giovane ed esuberante pangolino cadde a sua volta perdutamente innamorato …

Evidentemente si trattava di un pangolino orfano di padre o di un giovinastro incurante dei saggi consigli paterni:

“ Il pangolino nel bosco, mentre alla caccia andava, incontrò una pipistrella graziosa e bella, il pangolino s’innamorò…..la prese per l’ala e la condusse a sedere, dal gusto, dal piacere e dal gran godere la pipistrella s’addormentò”

“ A mezzanotte in punto la pipistrella s’è svegliata e alzando gli occhi al cielo gridava piangendo o che crudele tu mi hai tradì”

“Non sono un traditore, disse il pangolino, e te lo giuro, ti sposerò. Avremo dei bei figli, che cosa ne faremo?”.

Fu un amplesso rapido ed appassionato, che generò il figlio del peccato, tuttaltro che bello ma verdastro e bitorzoluto. anche per questo particolarmente cattivo, che venne chiamato Covid (termine che in antico Cantonese significa figlio di pipisgnotta).

Il giovane Covid sfruttando il sangue di papà pangolino, sempre infoiato, nel corpo dell’infelice geniore. si moltiplicò nel corpo dell’infelice genitore.

Quando il pangolino venne catturato e macellato, Covid e i suoi fratelli si propagarono e si diffuse nell’intero orbe terraqueo provocando le stragi e i disastri stanno rovinando le nostre vite e che con ogni probabilità ci perseguiteranno ancora a lungo.

Questa, scientificamente dimostrata, è la vera origine della pandemia virale che ci attanaglia e che, con un grave errore nella ricerca, è stata attribuita alla “ strana ed incivile” cucina asiatica, cinese in particolare.

E’ vero,nell’estremo oriente il pangolino è considerato un cibo prelibato, ma viene consumato soltanto dopo una lunga bollitura (necessaria per poterlo liberare delle durissime scaglie che lo rivestono, che vengono destinate alla realizzazione di farmaci rinomati nella farmacopea cinese) per essere poi cucinato in zuppe ed umidi prelibati.

E’ evidente, quindi, che Covid ed i suoi maledetti fratelli non si sono sviluppati e propagati per colpa del pangolino peccatore – in quanto animale o cibo – ma a causa dell’assoluta mancanza di igiene nei pubblici mercati asiatici, cosa che ha reso inevitabile la contaminazione e la trasmissione del virus e la contaminazione di uomini e cibi attraverso il sangue del peccato .

Colpa dell’uomo, quindi, non del povero pangolino innamorato, trasformato in cibo per ricchi buongustai cinesi.

Certo, il pangolino è uno strano animale, squamoso, brutto, sicuramente non appetitoso alla vista.

Ma quanto sono forse belle e visivamente appetitose un’ostrica, o una lumaca (chiocciola), o una rana, tutti animali/ cibo tanto apprezzati sia in Francia sia in Italia?

Ma …. Il pangolino non è un animale/cibo, è in via di estinzione, è difficile da reperire, è …. da incivili!

Già, come era incivile Alexandre Dumas padre, quello de “ I tre moschettieri”, de “ Il conte di Montecristo”, di “ I Quarantacinque”, soltanto per ricordare alcune delle sue opere immortali.

Quello che raggiunse Garibaldi in Sicilia per seguire l’epopea dei Mille e narrare le imprese del Generale e delle camicie rosse, rendendole famose nel mondo.

Sì, quello.

Pochi sanno che quel fecondo e quasi bulimico scrittore fu autore anche del “Grand Dictionnaire de cuisine “ultima sua opera letteraria scritta nel 1869 e consegnata postuma all’editore nel marzo1870; un vero monumento alla gastronomia.

L’opera ci riporta la diretta testimonianza di piatti, menu sperimentati dall’Autore nei suoi innumerevoli viaggi: preparazioni e cibi che a volte la nostra moderna sensibilità ( o schizzinosità ) ci impedirebbe anche di immaginare.

Fra i vari animali ricordati da Dumas come cibo compare anche l’armadillo, animale molto simile al nostro pangolino, prima del suo infausto amplesso con la pipistrella.

“ Questo animale ha la carne molto tenera e delicata ma che non piace proprio a causa del suo odore muschiato; tuttavia gli indiani lo apprezzano molto”.

Lo stesso Dumas descrive le possibilità e le modalità per cucinare come alimento umano molti altri animali, ora considerati immangiabili e inimmaginabili come alimento.

Fra essi dedica una particolare attenzione all’orso, descrivendo accuratamente il procedimento adottato a Mosca e San Pietroburgo per cucinare e servire le zampe del plantigrado ( un metodo non molto dissimile da quello utilizzato in Lombardia per cucinare i piedini di maiale).

Mille potrebbero essere gli esempi, sia di piatti e cibi “alternativi” tuttora consumati in molte parti del nostro povero pianeta, con particolare riferimento alle specialità “italiane” a partire da quelle gradite ai padri romani per finire con quelle del nostro inimitabile Rinascimento, la cui cucina fu la “mamma” della osannata cucina francese.

Una lunghissima storia di cibi e tradizioni che, se i pazienti lettori vorranno, potremo continuare a narrare, sempre con un tocco ironico accompagnato da sprazzi di follia.

Il “virus del pangolino innamorato” si deve combattere anche così, in sorridente amicizia.

Note

Ho liberamente reinterpretato alcune opere del passato;

“Papaveri e Papere” canzone portata alla fama da Nilla Pizzi nel 1952

“Il cacciatore nel bosco” canzone popolare dell’inizio del secolo scorso, declinata con diversi testi, spesso molto allusivi e noti in tutte le caserme ed i rifugi montani

“Il grande dizionario di cucina” di Alexandre Dumas padre, pubblicato in Italia da Sellerio Editore

Enzo Pomentale

 

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