Le tradizioni culinarie della Quaresima
06 Mar 2019

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RIUNIONE DEL 6 MARZO 2019


La relazione semiseria di Enzo Pomentale per il Mercoledi' delle Ceneri

 

Nell'immagine: Federico Mantero, Enzo Pomentale, Angela Corengia, Virgilio Anselmo



Mercoledì delle Ceneri: per puro caso la relazione di Pomentale ci parlerà delle tradizioni culinarie della Quaresima. Sono però convinta che, se fosse stato Ferragosto, il nostro Enzo ci avrebbe intrattenuto con la stessa competenza e lievità sulla cucina da spiaggia o sui dolci tipici dell’Assunta.

Riportiamo, in corsivo, brani dalla sua relazione, precisando che abbiamo dovuto apportare qualche taglio per motivi di spazio: lo stesso relatore ha avuto un calo di voce che ci ha fatto temere che non riuscisse a portare a termine l’interessante esposizione.

Dopo l’ultima “pacciata” carnevalesca, per tradizione dobbiamo far scattare l’interruttore e “ridurre i giri” della nostra “macchina alimentare”, dedicandoci a consumi e a stili di vita un po’ più frugali.

Ieri è terminata la lotta fra Carnevale e Quaresima, ampiamente descritta a partire dal Medioevo sia in letteratura sia da pennelli famosi.

In essa i cibi “di grasso” hanno combattuto strenuamente con quelli “di magro”: i capponi combattono con i naselli; il lardo e lo strutto con l’olio; le anguille con il porcello. Una lotta dura, che si combatte tutti gli anni e che tutti gli anni si conclude con la piena sconfitta del Carnevale - “cucina di grasso”- che cede le armi alla Quaresima - “cucina di magro” -.

Carnevale altri non è che il latino “carnem levare” (eliminare la carne).

Nel famoso dipinto “La lotta fra il Carnevale e la Quaresima” di Pieter Bruegel il Vecchio, il Carnevale è un uomo ben pasciuto a cavallo di una botte, che brandisce come fosse un’arma un lungo spiedo con infilzati dei pezzi di carne. Il cibo è decisamente al centro del suo corteo bizzarro: guardate dietro di lui l’uomo che porta sulla testa una tavola imbandita. Di fronte, ecco la Quaresima: tanto è grasso il Carnevale, tanto è magra e ossuta la donna che la rappresenta. Ha in testa un’arnia, forse riferimento al miele selvatico, cibo di Giovanni Battista nel deserto. Risponde agli attacchi dello spiedo di carne del Carnevale con una lunga pala da fornaio con due aringhe, pietanza di magro. Il carretto su cui siede è tirato da un frate e una monaca.

Purtroppo ogni volta vince la triste vecchia ossuta.

Oggi è il Mercoledì delle Ceneri.

Si tratta di un giorno rilevante nella liturgia cattolica: il Celebrante sparge sul capo dei fedeli un pizzico di cenere (tradizionalmente ricavata bruciando rami di ulivo benedetto conservati dalla Domenica delle Palme dell’anno precedente e recita la celebre -e vagamente jettatoria - esortazione che compare nelle vulgate latine dell’Antico Testamento – Genesi: “Memento, homo, quia pulvis es et in pulverum revertèris”.

Quaresima vince, sconfigge il re Carnevale, tutti gli anni, da secoli, ma sempre la voglia di vivere, il piacere di vivere (anche quello di ben mangiare, quindi) resistono a capo basso per un periodo liturgicamente predeterminato: 40 giorni circa.

I 40 giorni sono un richiamo esplicito alle scritture evangeliche:

- quaranta i giorni passati da Gesù nel deserto in preghiera e digiuno;

- quaranta i giorni dedicati da Gesù per istruire i suoi discepoli fra la Resurrezione e l’Ascensione,

oltre a numerosi riferimenti ai 40 giorni contenuti nel Vecchio Testamento e ancora 40 anni, il tempo trascorso nel deserto dai figli di Israele prima di giungere alla Terra Promessa.

40, sempre 40: perché? Evidentemente un numero importante per la tradizione ebraica (numerologia) e, di riflesso, per quella cristiana che ne è derivata: se avessi avuto più tempo me lo sarei studiato.

Torniamo all’argomento: Cristianesimo e limitazioni alimentari.

E’ bene rammentare che il Cristianesimo, unica fra le grandi religioni monoteiste, non ha mai vietato alcun alimento in quanto tale. Non le gravi limitazioni alimentari imposte al Dio di Israele, secondo cui i cibi erano puri o impuri, senza alcun collegamento con altri valori (etici, sociali, sanitari): un cibo è vietato, un altro ammesso. Perché? Perché lo vuole Dio.

Come sappiamo fin da bambini, l’uomo fu cacciato dal Giardino dell’Eden, dove viveva felicemente di sole erbe e frutti”, perché Eva decise di provare l’unico frutto precluso a lei ed al povero Adamo (volle gustare il frutto della conoscenza, elevarsi a Dio, fuor di metafora). Basta erbette e frutti naturali, basta brucare a fianco del leone e dell’agnello; finalmente i frutti dell’agricoltura (il lavoro) e i frutti della violenza e della sopraffazione sugli animali (la carne).

E’ bene rammentare che prima di distruggere l’umanità divenuta peccatrice e violenta, prima di punire l’uomo col Diluvio Universale, Dio volle salvare “un giusto” con la sua famiglia; al termine della spaventosa tempesta (40 giorni) Dio propose all’uomo un nuovo modello alimentare (finalmente!), una nuova dieta che teneva presente la natura imperfetta dell’uomo.

Così Noè divenne l’inventore del vino (alimento oggetto di trasformazione e quindi di lavoro, intelligenza e fatica) e venne autorizzato a mangiare carne, in precedenza proibita. Ma pose limitazioni: “Non mangerete la carne che abbia ancora la sua vita, cioè il sangue, perché il sangue è la vita: non mangiare dunque la vita con il sangue”.

Ecco così spiegato il rituale ebraico (e islamico) del dissanguamento degli animali, essenziale perché gli stessi possano divenire alimento per l’uomo.

Con il Cristianesimo tale prospettiva si ribalta: Pietro capisce che il Cristianesimo non è una rivoluzione riservata agli Ebrei, ma è un messaggio universale. Il superamento di questa barriera porta sia all’abolizione di ogni differenza sia fra gli uomini (ebrei e altri) sia, conseguentemente, fra gli alimenti (puri ed impuri).

La nuova religione lascia all’individuo la responsabilità della propria scelta alimentare, non più cibi come peccato ma l’uomo come peccatore.

Nel Cristianesimo non esiste differenza nei cibi, tutti sono oggettivamente neutri sotto il profilo etico e morale, l’importante è l’uomo con il suo comportamento.

Da Adamo, l’uomo cade nel peccato soprattutto a causa del cibo. Nasce così col Cristianesimo il “peccato di gola”, peccato capitale, sempre pronto a ghermire l’uomo che non può – senza morire d’inedia – rinunciare al cibo.

Il vizio della gola non può essere cancellato come gli altri, possiamo soltanto tentare di controllarlo e mortificarlo con la forza d’animo limitando la nostra bramosia.

Un peccato capitale, cui è difficile non soccombere salvo rischiare la morte per inedia (sorte toccata, peraltro, a molti eremiti). A tal proposito possiamo rammentare la via dei “perfetti” fra i Catari, i quali perseguivano la endura (la morte per inedia) come pratica estrema di purificazione.

Dato che quello di gola è un peccato, esso deve essere combattuto con la moderazione personale e rispettando l’imposizione normativa della Chiesa: astinenza e digiuno.

Tali termini non sono sinonimi; il primo sostantivo descrive l’astensione da uno o più cibi (carne, vino, ecc.) il digiuno consiste nel non assumere cibo, di qualsiasi natura.

Rammentiamo che per la Chiesa, saggiamente, il digiuno consiste nella riduzione ad un solo pasto quotidiano anziché a due come comunemente previsto (Regola Benedettina). Ovviamente eviterò di rammentare tutte le limitazioni previste, in buona parte abbandonate specialmente negli ultimi decenni.

E vediamone la storia.

Già nel IV secolo le autorità ecclesiastiche avevano prescritto l’astinenza dai prodotti animali (come di qualsiasi genere, pesce, uova, latticini) in giorni predefiniti, il tutto per circa 150/160 giorni all’anno destinati ad astinenza o digiuno : è rimasta in vigore soltanto la Quaresima, ormai spogliata dei suoi più profondi significati penitenziali e purificatori e sostanzialmente ridotta al solo Mercoledì delle Ceneri ed al digiuno/astinenza del Venerdì Santo.

Evidente l’enorme riflesso che ebbe sulla società, nei secoli, la precettistica cristiana in campo alimentare che, di fatto, tendeva ad omologare i consumi alimentari dell’intero continente. L’alimentazione (attraverso l’astinenza e le conseguenti modifiche della dieta quotidiana: carne o pesce, olio o grasso animale) era diventata una sorta di segno di appartenenza non solo religiosa ma anche culturale e politica.

Naturalmente il dovere di astensione dalle carni gravante su un’intera società, comportò la conseguente e progressiva valorizzazione dei cibi permessi, concettualmente considerati dalla Chiesa e dai credenti come cibi poveri.

La “tolleranza” verso il pesce non si sviluppò in modo lineare: nei primi secoli del cristianesimo, infatti, fu escluso dalla dieta quaresimale; subentrò poi una tacita tolleranza che nel IX/X secolo si trasformò in espressa autorizzazione.

Rimasero soltanto esclusi i “pesci grassi” (sostanzialmente quelli dotati di sangue rosso, evidente ricordo dell’interdetto biblico del sangue).

Ovviamente il consumo massiccio del pesce inizialmente conobbe grandissimo limite a causa della sua facile deperibilità; in pratica era riservato alle popolazioni rivierasche ed a quelle che vivevano in aree pianeggianti e ricche di corsi d’acqua (tinche, carpe, anguille). Il mercato cambiò con lo sviluppo dei metodi di conservazione che trasformarono il pesce in alimento comune e di facile reperibilità.

Ovviamente anche le uova ed i formaggi, pur di evidente provenienza animale e quindi originariamente esclusi dalla cucina “di magro”, vennero progressivamente inclusi fra i cibi autorizzati.

Essi, originariamente considerati cibi poveri e riservati alla mera sussistenza delle popolazioni contadine, vennero a conquistarsi una considerazione maggiore anche sulle tavole ricche, stimolando la creazione di nuove ricette, adatte ai palati più raffinati. In tale attività si distinsero alcuni centro monastici che inventarono i più diversi sistemi per cucinarle e valorizzarle.

La rigidità della “dieta di magro” così come imposta, si scontrava spesso con realtà sociali, economiche e personali spesso insormontabili.

L’olio, ad esempio, avrebbe dovuto costituire l’unico grasso alimentare, in quanto di origine vegetale (e quindi “non grasso”). Esso, tuttavia, era un prodotto elitario, comune soltanto nei paesi mediterranei e gli oli vegetali alternativi (noce o semi), rivestivano scarsa rilevanza nel consumo.

Come superare l’impasse? Il grasso è elemento necessario nell’alimentazione e nella cucina, specie nella vita medievale che richiedeva un ricco apporto di calorie.

Anche in questo caso la già collaudata capacità della Chiesa trovò la soluzione: “l’oleum lardinum”!! Con una geniale acrobazia lessicale, i vescovi riunitisi nel “Concilio di Aquisgrana” dell’anno 816 riuscirono a deprivare il lardo della sua natura animale; analogamente gli Spagnoli vennero autorizzati all’uso dello strutto.

In Francia, specialmente sulle tavole signorili trovò ampio spazio il “lard de careme” il lardo della Quaresima, grasso di balena salato.

Fin qui l’astuto passaporto per il grasso di maiale e quello di balena; ma che fu del burro, altro importantissimo grasso alimentare a sua volta di origine animale?

Anch’esso cominciò a trovare legittimazione in epoca carolingia – a partire dal nord – posto che in un capitolato di Carlo Magno il butirum è già registrato fra i prodotti quaresimali confezionati nelle fattorie regie. Naturalmente il consumo trovò sempre più generale e gradita applicazione nei secoli successivi.

L’astinenza dalle carni, che in origine era dovere universale per il cristiano, si era trasformata progressivamente in una semplice pratica di conformismo e, soprattutto, in metodo di controllo sociale. A fronte di opere pie alternative o di congrui pagamenti in denaro, il “fedele” goloso che non voleva peccare poteva placare la gola e riscattare dalla Chiesa l’obbligo di astinenza; poteva cioè trasferire il peccato ad altri!

E’ evidente che anche queste agevolazioni, cui chiaramente potevano accedere soltanto i ricchi o i potenti, furono uno dei motivi di scandalo e di malcontento nei confronti della Chiesa di Roma, su cui trovò radici la Riforma Protestante: stranamente, la Quaresima non trovò alcuno spazio nelle nuove religioni, nate da questa.

Potrei aver finito, ma ho promesso che la mia sarebbe stata una storia “semiseria”.

Ho già narrato alcune “chicche” di astuta ipocrisia nate dalla necessità (o dal semplice comodo piacere alimentare) di superare le limitazioni quaresimali: l’olio lardinum, l’acquisto delle esenzioni, il trasferimento a terzi dell’obbligo di astinenza.

Nacquero anche molti equivoci sulla qualificazione delle carni permesse.

Gli uccelli acquatici, ad esempio: essi non erano stati ospitati nell’Arca e nuotavano: vennero spesso equiparati a pesci, quindi i monaci dell’Abbazia di Pomposa si cibavano per tutto l’anno, compresa la Quaresima, di succose anatre e falanghe, pienamente considerate pesce.

In Francia venivano pescate con la lenza e mangiate le anatre di mare …

Il castoro, allora abbondante sulla riva del Rodano, venne considerato cibo di magro tanto da essere consumato in Quaresima anche nei palazzi papali di Avignone.

Inoltre divenne assai comune ricorrere a giustificazioni mediche per evitare i rigori dei digiuni e delle astinenze.

Già la regola benedettina prevedeva che i monaci malati non fossero assoggettati alle limitazioni alimentari nei giorni di astinenza o di digiuno: il malato doveva fare almeno due pasti giornalieri e mangiare carne; ovviamente la norma venne recepita progressivamente anche dai credenti e, conseguentemente, la Chiesa si adeguò, accordando dispense individuali agli obblighi di astinenza per motivi di salute.

Un accenno al cibo delle feste. Come detto il digiuno e l’astinenza non devono essere praticati nel giorno del Signore ed in tutte le festività religiose. Ciò nel rispetto della tipica alternanza cristiana di penitenza e gioia, mortificazione e letizia.

Conseguentemente come erano obbligatori il digiuno e l’astinenza nei giorni ad essi destinati, così erano obbligatori l’allegria e la gioia e il cibo abbondante nei giorni di festa (che erano tutti festa del Signore): digiunare la domenica è una colpa e nei giorni festivi è proibita l’astinenza dalla carne.

Principio tanto radicato da coinvolgere senza alcun ripensamento anche Francesco, il Santo “per eccellenza”, l’amico degli animali, che nella leggenda perugina dice “… dobbiamo guardarci dalla eccessiva astinenza, poiché il Signore preferisce la misericordia al sacrificio”.

Se così è, affrontiamo con serenità il periodo di astinenza che ci attende e se proprio dobbiamo peccare di gola … pecchiamo

dobbiamo peccare di gola.. pecchiamo con grazia."

Che dire.. ascoltare Enzo è sempre un piacere e, come ha osservato Baj, ci fa tornare la voglia di “rubare la conoscenza”.

Grazie di cuore, anche perché non gli ho dato il tempo di rispondere alla richiesta di tenere la relazione (ma sapevo che da rotariano vero lui c’è sempre)!

Angela Corengia

 

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