“Telefono Donna Como”: da vent'anni vicino alle donne che subiscono violenze
15 Mag 2013
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CONVIVIALE DEL 15 MAGGIO 2013
La Presidente Anna Peverelli e l'Avvocato Laura Tettamanti riassumono l'attività  dell'associazione
Nell'immagine da sinistra: Laura Tettamanti, Giacomo Colombo e Anna Peverelli


Si torna alle Associazioni comasche che si occupano di disagio sociale, ospitando due rappresentanti di “Telefono Donna Como”: la Presidente Anna Peverelli e l’Avvocato Laura Tettamanti.
E’ Anna Peverelli a ricordare gli inizi, nel 1991, dell’attività associativa (come emanazione del centro di Milano “La casa delle donne”), che si avvaleva dell’opera di sette volontarie. L’obiettivo era di offrire assistenza alle donne in difficoltà perché vittime della violenza, dapprima con supporti psicologici e legali e dal 2001 con l’accoglienza delle madri con figli in una casa di ospitalità a indirizzo segreto. Le volontarie ora sono una ventina, tutte adeguatamente preparate attraverso corsi di aggiornamento, affiancate da una decina di professioniste.
Dal 94 il ruolo dei centri antiviolenza ha assunto peso sociale rilevante, per cui sono state adottate linee-guida standard: si offre, gratuitamente, consulenza legale, assistenza nell’espletamento di formalità connesse con una separazione dalla famiglia (ricerca di casa, lavoro), accompagnamento nel difficile percorso della denuncia e sostegno conseguente. Compito dell’Associazione è anche quello di monitorare i dati sul fenomeno della violenza, sensibilizzare attraverso interventi presso le scuole, organizzare corsi di formazione per le Forze dell’ordine e i Pronto soccorso, integrando l’azione istituzionale per creare protocolli consolidati attraverso aggiornamenti costanti, rivolti sia alle volontarie e operatrici dell’Associazione che all’esterno. In genere il rapporto inizia con una telefonata, alla quale rispondono le volontarie preparate allo scopo; si organizza un colloquio in sede e si valuta insieme, anche con l’assistenza delle specialiste, come procedere; spesso si deve convincere la vittima a denunciare la violenza, soprattutto se non occasionale, perché è abbastanza frequente che la telefonata costituisca solo uno “sfogo”, che non vuole arrivare all’intervento delle Forze dell’ordine per paura di ritorsioni.
In genere si tratta di violenze connesse con l’esercizio di un potere, che può trovare le proprie radici nella storia familiare e personale, nella cultura e nelle regole dominanti i rapporti uomo-donna; si manifestano con minacce verbali, pressioni psicologiche ed economiche, maltrattamenti, aggressioni sessuali, stalking.  Le donne si trovano isolate, soprattutto in famiglie dove c’è trasmissione di violenza o indebolimento della funzione genitoriale.
E’ poi Laura Tettamanti, che si occupa dell’assistenza legale, a fornire qualche dato, precisando che le statistiche non sono aggiornatissime: dal 1991 al 2012 l’Associazione ha seguito più di 3.500 casi, in costante aumento perché spesso sono le Forze dell’ordine o gli Ospedali a fare la segnalazione. Aumenta percentualmente il numero delle donne non italiane (circa il 30%), nonostante la presenza straniera sia del 15% circa: ciò significa che subiscono violenze anche da nostri concittadini. Il 60% è costituito da donne coniugate; nell’86% dei casi l’autore della violenza è il partner, nel 9% un familiare, a dimostrazione che è proprio la famiglia il maggior centro di pericolo. Elevata la percentuale del maltrattamento psicologico, superiore a quello fisico; solo poco più del 7% si riferisce a violenza sessuale, ma il dato è sottostimato perché emerge sempre in un secondo tempo, dopo lo screening iniziale; in oltre l’11% dei casi la violenza si estende ai figli. L’Associazione non ha avuto casi di femminicidio tra le assistite, a conferma che la prevenzione può dare risultati positivi. I dati nazionali raccolti dalla “Casa delle donne” di Bologna attestano che nel 2012 sono state uccise 124 donne (nel 2005 84), ma la fonte è la stampa, quindi presumibilmente sottostimati; un numero rilevante è costituito da prostitute e sono segnalati anche 47 tentati omicidi; le italiane sono il 70% e nella maggior parte dei casi gli autori sono italiani; la Lombardia è la regione più interessata al fenomeno, poi la Campania. I delitti sono commessi di solito nell’abitazione della vittima o della coppia; il 19% degli autori si toglie la vita, alcuni sopravvivono ma la maggior parte tenta la fuga. Il dato preoccupante è che nel 41% dei casi sono state segnalate violenze precedenti.
Dal 2001 la Casa di accoglienza dell’Associazione ha accolto circa 110 donne (si ospitano solo quelle con figli), con una permanenza media di 7 mesi, per consentire di trovare una casa e un lavoro. Sono assistite (anche nei procedimenti penali e presso il Tribunale dei minori) da un’equipe di operatrici professionali e un aiuto concreto è fornito da collaboratrici esterne - come ha fatto Angela - che si occupano di problemi quotidiani (seguire i figli negli studi e nelle attività giornaliere se le madri non hanno altri familiari); è in fase di presentazione un libro che riassume l’esperienza della Casa.
A Colombo, che apre gli interventi, Peverelli chiarisce che l’Associazione non ha alcun sussidio pubblico; le risorse si trovano quindi attraverso l’autofinanziamento (quote, iniziative) o la partecipazione a bandi provinciali e regionali con progetti specifici. La Casa d’accoglienza è finanziata da una Legge del 1975 (tutela delle donne con figli) e attraverso convenzioni con i Comuni; quelli aderenti – attualmente sono 42 che pagano una piccola quota per abitante – versano la retta al 50%, gli altri (e tra loro Como) per intero. Il 5 per mille da un introito di circa 3.800 euro.
Tettamanti, a Brenna che desidera conoscere i dati dei femminicidi a livello europeo, precisa che conosce quelli dei paesi anglosassoni, pressoché allineati con quelli italiani. Da noi in passato erano superiori, perché c’erano molte vittime della criminalità organizzata e del “delitto d’onore”. Franco fa poi notare che anche gli uomini sono sottoposti a violenze psicologiche, soprattutto se anziani; Peverelli – se pur d’accordo per i fenomeni di stalking -  rileva che comunque sono le donne le maggiori vittime (in questo caso il 70%); un po’ provocatoriamente suggerisce che anche i maschi si organizzino.
Botto osserva che i raffronti con il passato potrebbero essere influenzati dalla possibilità di avere oggi maggiore accesso ai dati (ritenendo che la nostra realtà sociale sia evoluta) e si chiede quale possa essere la chiave di lettura per capire la violenza in ambito familiare. Peverelli chiarisce che anche una maggior consapevolezza delle donne, sempre più disposte a denunciare la violenza, influisce sull’incremento dei casi accertati; per quanto concerne la famiglia, purtroppo non è ancora stata superata la cultura del “maschio dominante”; per questo si cerca di fare un’azione di sensibilizzazione nelle scuole, per abituare i ragazzi al rispetto reciproco tra i sessi.
Quest’ultimo concetto è anche la risposta al quesito successivo di Carli Moretti (“cosa si può fare”): la strada da percorrere è prima di tutto l’educazione dei figli, anche attraverso la formazione nelle scuole. Importante è la collaborazione con i rappresentanti delle Forze dell’ordine e al riguardo osserva come sia mutato, nel tempo, l’atteggiamento di chi riceve la denuncia di violenza: in passato la domanda era, frequentemente, “ma lei cosa ha fatto per provocare..”, facendo rimbalzare la colpa sulla vittima.
A tempo scaduto, a Pomentale che chiede se l’Associazione accetti anche collaboratori maschili, Peverelli risponde negativamente, non tanto per una questione di “femminismo”, ma perché è accertato che la donna che subisce violenza ha  maggiori difficoltà a confrontarsi con un uomo: la fiducia è condizione fondamentale per far sì che le vittime chiedano aiuto.
Colombo chiude l’interessante relazione sottolineando come l’argomento sia di grande attualità (la notizia del giorno è una vittima in Svizzera); per questo è un po’ amareggiato per la scarsa partecipazione dei soci.

Angela Corengia

 

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