La tecnologia ci rende umani?
05 Mag 2010

CONVIVIALE DEL 5 MAGGIO 2010
Il Professor Stefano Moriggi risponde al quesito

Stefano Moriggi è un Filosofo della scienza a noi noto per averlo conosciuto come co-Relatore della penultima lezione aperta. Ha recentemente pubblicato un saggio sull'utilizzo delle tecnologie ("Perché la tecnologia ci rende umani - La carne nelle sue riscritture sintetiche e digitali" scritto con Gianluca Nicoletti - Ed. Sironi 2009) e premette  che la sua analisi non è quella del sociologo o dello psicologo, che affronta gli aspetti dell'uso o dell'abuso, ma una riflessione sul rapporto uomo-tecnologia dal punto di vista evolutivo. Alberoni per esempio, in un articolo apparso sul Corriere della Sera, conclude proponendo una "moratoria" sull'impiego delle apparecchiature che costellano le nostre giornate, condividendo sostanzialmente una mentalità diffusa che è quella di concedere l'uso delle tecnologie ai giovani in maniera intermittente, con lo scopo di "disintossicarli" in modo graduale dalla loro contaminazione.
Sull'altro fronte MTV, emittente seguita dai giovani anche in rete,  ha recentemente ospitato Pulsatilla, la giovane che ha pubblicato un libro sulle sue esperienze in chat, che ha vissuto come una sorta di ritorno all'ottocento (l'attesa della lettera che fa aumentare il desiderio,) anche se oggi è tutto accelerato: la velocità naturale dell'amore era quella delle ferrovie o delle poste, mentre oggi sembra tutto snaturato dall'uso di sms e pc.
In entrambi i casi (Alberoni e Pulsatilla) c'è l'idea che la tecnologia sia una protesi per sostituire, prolungare, addirittura potenziare la comunicazione, uno strumento in cui, tuttavia, perdiamo la naturalità di essere e considerarci umani.
Ma di per se' il linguaggio è già tecnologia. Nel "Fedro" di Platone c'è il dialogo tra il Re e un inventore che gli mostra tutte le idee che ha realizzato per la popolazione, tra cui la scrittura. Di quest'ultima l'inventore è particolarmente fiero, ma il Re si mostra spaventato, perché pensa possa avere conseguenze inimmaginabili. Un "rimedio" (pharmakon) che è veleno, secondo il suo significato greco, perché divenendo pubblico modificherà il pensiero. Platone aveva capito ciò che sfugge ad Alberoni e Pulsatilla: la scrittura non avrebbe "contaminato" ma "riscritto" il modo di pensare. La tradizione orale "si trasforma" in un metodo, la scrittura,  che lascia comunque tracce della memoria e i confronti - fatti di botta e risposta - diventano per Platone i "Dialoghi", fermando sulla carta idee altrimenti volatili.
"Noi siamo le continue reinvenzioni delle nostre stesse invenzioni" (la citazione è di De Kerckhove)  e quindi non dovrebbe più sorprendere il fatto che il gap generazionale non è questione meramente anagrafica, ma andrebbe piuttosto riletto e compreso proprio attraverso l'evoluzione delle macchine che di epoca in epoca hanno riscritto grammatiche e semantiche delle nostre esistenze. Quando ci si relaziona con uno strumento si apre uno spazio che prima non c'era e non era nemmeno ipotizzabile: da qui la necessitò di rileggere la storia dell'evoluzione umana anche attraverso gli "strumenti". La cultura è soprattutto migliore capacità di adattamento, il vantaggio che ha consentito all'ominide di avere il predominio sulla natura. Non esiste un'umanità metastorica, perché l'evoluzione è continua trasformazione: "secondo natura" è quindi un trucco ideologico.
Dalla tecnologia non ci si salva demonizzandola come fosse un corpo estraneo, perché è condannare ciò che ci ha portato all'evoluzione; in realtà "siamo diffidenti perché non conosciamo" e lo sforzo deve essere quello di ampliare il nostro ambito culturale che è fatto necessariamente anche di "macchine". L'essere umano sarebbe nulla senza le "protesi" che ne hanno scandito l'evoluzione e che ci re-inventano quotidianamente, modificando il nostro modo di essere.
E' Campisani ad aprire gli interventi, condividendo il concetto che la tecnologia modifichi il modo di pensare (come fu, per esempio, con Galileo); si chiede tuttavia come colmare il gap generazionale cui Moriggi faceva cenno. Ritorna sull'argomento il Relatore, chiarendo che il divario non è necessariamente anagrafico. Oggi molti anziani sono in grado di sfruttare le nuove tecnologie meglio dei giovani, è solo una questione di volontà (o forse di necessità) e di pratica. Inoltre non è detto che le nuove generazioni siano avvantaggiate: i ragazzi "nati" con il computer mostrano più difficoltà di attenzione e concentrazione sul testo scritto, quindi fanno maggior fatica a memorizzare, perché abituati a movimenti diversi. I nostri occhi sono educati alla scrittura, non così i loro. Non si risolve tuttavia  il problema allontanandoli dal pc, ma cercando di entrare nel loro linguaggio che è diverso dal nostro; i libri di testo dovranno adeguarsi ad altre dinamiche di apprendimento, questa deve essere la sfida.  La "salvezza" sta dentro la tecnologia e dobbiamo cercare di risolvere la questione entro i prossimi quindici anni, altrimenti la battaglia è persa. Imporre l'astinenza è sbagliare il bersaglio, perché non c'è alternativa - oggi - alla tecnologia e stare fuori significa essere sudditi dell'ignoranza. Entrare nei meccanismi dei nuovi linguaggi è fondamentale per continuare a relazionarci con i giovani, altrimenti il rischio è quello che non riusciremo più a comunicare.
Bruno Carli Moretti, ricordando la doppia valenza della tecnologia (buona ma anche cattiva, come il fuoco, per esempio) chiede cosa significhi in concreto che "ci rende umani", se può costituire anche un danno che non migliora l'esistenza. Moriggi chiarisce che, a suo parere,  il concetto di umanità è scollegato dal buono o cattivo uso della tecnologia, che comunque produce degli schemi ancor prima di verificare se le possibilità di utilizzo possano essere negative. "Rendere umano" è un criterio meramente evoluzionistico, che non necessariamente vuole significare progresso ma possibilità di adattamento. Prova né è che le macchine cui l'uomo non si è adeguato sono scomparse (suggerisce la lettura di "L'estinzione dei tecnosauri - storie di tecnologie che non ce l'hanno fatta" di Nicola Nosengo - Sironi editore 2003).
All'osservazione di  Pomentale (mancanza di tecnologia è mancanza di umanità per i ¾ del mondo?), Moriggi fa osservare come la cultura tecnologica costituisca anche un diritto, uno dei tanti da cui il cosiddetto Terzo mondo è escluso. Alcuni Stati (Ucraina e Finlandia) hanno cambiato la prima parte della Costituzione introducendo il "diritto ai bit" e il Brasile sta investendo in modo considerevole in tecnologie, come prolungamento del concetto di cittadinanza. Senza crescita tecnologica, quindi, non si può parlare di evoluzione umana.
Renzo Gorini osserva poi come la tecnologia possa portare ad una regressione delle conoscenze (es. l'uso della calcolatrice ha soppiantato la capacità di fare calcoli), con il risultato che lo sviluppo dell'uomo sia in realtà unicamente uno sviluppo tecnologico. Trova inoltre che la lettura e lo studio dei "Classici" non possano essere sostituiti da nessuna innovazione, perché in questi c'è già l'evoluzione più alta del pensiero. Sulla prima questione Moriggi ribadisce che esiste comunque un'evoluzione umana, con il progredire della tecnologia, perché si allargano le conoscenze dell'uomo in quanto tale: imparare a fare i conti manualmente o pensare di usare una calcolatrice è comunque una ricerca della mente; non si tratta di capire se si stava meglio o peggio, ma se sia intervenuta una modifica evolutiva. Stesso discorso per i Classici, che frequentemente fanno ragionamenti molto attuali ma non per questo ci si deve fermare alla loro conoscenza. Tutto ciò che è nuovo è anche creatività, stimolo, confronto che porta a risultati di crescita o di critica, alla capacità di capire linguaggi nuovi, indipendentemente dal loro essere migliori o peggiori.
Moriggi, condividendo poi l'osservazione di Pomentale (al progresso tecnologico non ne corrisponde uno etico), sottolinea come il sapere non sia mai definitivo dove matura un'idea di libertà che può diffondersi e aumentare con la conoscenza, senza la quale - non riuscendo a comprendere - ci si riduce alla schiavitù di seguire le idee degli altri. La perdita di democrazia è soprattutto la riduzione al silenzio delle minoranze, concetto già chiaro a Galileo e poi ancora nel 700. E' quindi auspicabile che l'educazione civile sia diffusa con l'abitudine al ragionamento e all'analisi, nell'ottica di un'evoluzione armonica che non faccia della tecnologia il feticcio del futuro ma non rimpianga nemmeno il tempo che fu, immaginando scenari apocalittici.
Una relazione interessante che forse farà meditare sul rapporto che molti di noi hanno con le nuove tecnologie, vissute spesso più come schiavitù che come opportunità "evolutiva". Mi piace chiudere con una frase che l'amico Luigi Marucci diceva spesso scherzosamente a quelli di noi che avevano difficoltà a usare il pc: "sei nel ghetto tecnologico…" Questa sera avrebbe avuto la sua rivincita e mi sembra di sentirlo: "te l'avevi dii.."

Angela Corengia

 

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