Introduzione alla Mostra "Rubens e i Fiamminghi"
09 Giu 2010

CONVIVIALE DEL 9 GIUGNO 2010

La lezione di Giuliano Collina per conoscere la nuova mostra di Villa Olmo

Rinati dopo il letargo di fredde e piovose serate e usciti dal tunnel degli impegni di infiniti campionati calcistici (che si svolgono sempre il mercoledi' sera), reagendo alla pigrizia che ci tiene lontani dalle serali per inciabattarci" a casa,  accorriamo numerosi ad ascoltare Giuliano Collina e la sua ormai tradizionale lezione annuale che ci introduce alla mostra di Villa Olmo.  Senza illusioni, tuttavia: questo inconsueto picco di presenze, che rende la sala "invernale" del Terminus insufficiente a contenerci tutti, è merito del nostro affabile relatore, più che di un rinato interesse rotariano.

Eccoci quindi presi per mano da Giuliano e introdotti "in un clima che non ci appartiene", come quello che artisticamente si vive a cavallo del 500 e nel 600, concomitante con la fine del periodo rinascimentale. Si chiude, per il Vasari, un periodo irripetibile che ha avuto nella classicità del 500 il suo acme artistico, secondo un concetto che racchiude una visione dell'arte come progresso cui fa seguito un'inevitabile decadenza. Non è così: se la scienza "corre su strada" verso l'infinito l'arte "corre su pista", tornando e ritornando sugli stessi percorsi, mutando ed evolvendosi, cambiando linguaggi e mezzi per poi riappropriarsene in periodi successivi.
Il 600 è il secolo del "barocco", letteralmente "grossolano", termine dispregiativo per definire un periodo poco capito nei secoli successivi sino ai giorni nostri. E' il periodo rappresentato dai grandi eroi letterari (I tre Moschettieri, Don Chisciotte), con doti ineguagliabili di coraggio, onore, lealtà ed amicizia, identificabili anche nella storia dell'arte (Borromini e Bernini, due grandi che si scontrano); è il secolo della prodigalità (che è un "eccesso", come l'avarizia), vuole meravigliare. E Rubens, personaggio simbolo dell'epoca, è prodigo di tutto ciò che l'arte può dare.
Di famiglia borghese, studia per diventare "gentiluomo": conosce sei lingue ed è abile nelle relazioni pubbliche, tanto da divenire ambasciatore presso varie corti europee. La sua passione per l'arte si sovrappone quindi alla professione cui è destinato,  senza nulla togliere l'una all'altra, anzi integrandole sapientemente e sfruttandone le reciproche occasioni. La sua "bottega d'arte" è più vicina alla Fiat che allo studio di Giacometti, con artisti anche di ottimo livello che ci lavorano, malgrado tutto ciò che viene realizzato sia "di Rubens". Ma l'intervento di altri (e taluni sono grandi come lui) è sempre deciso e coordinato dal Maestro, comunque presente nelle fasi di realizzazione delle opere.
La mostra che Gaddi ha curato a Villa Olmo è, secondo Giuliano, tra le più riuscite. Il percorso inizia dalla contrapposizione dei paesaggi fiamminghi: le cupe tonalità del Belgio, la maggior vivacità dell'Olanda, interpretati dagli artisti dell'epoca. Interessante è la "lezione" di Giuliano circa l'autenticità di un'opera d'arte: l'originale è del maestro, come pure le repliche con lo stesso soggetto; di questo gli allievi possono aver realizzato copie, che non sono tuttavia dei falsi, perché il vero falsario non riproduce, ma aggiungere opere alla produzione del maestro. Con le sale dedicate a Rubens inizia la conoscenza specifica dell'opera dell'artista: i deliziosi bozzetti, creati per la committenza come base di lavoro, costituiscono documenti preziosi della sua arte pittorica, perché danno l'opportunità di entrarvi senza l'intermediazione della sua scuola. E' poi un susseguirsi di opere che lasciano trapelare gli impulsi avuti dalle conoscenze personali dell'artista: ritratti di nobili, soggetti sacri commissionati dal Clero (realizzati anche in Italia), quadri dipinti per i potenti dell'epoca. E ancora: ritratti ed autoritratti, di Rubens ma non solo, sino all'apoteosi delle nature morte, che la pittura fiamminga esalta con incredibile ricchezza di immagini.
Le slides delle opere che Giuliano ci mostra (rimpiangendo i bei tempi delle diapositive con il proiettore..) partono dalla "Circoncisione di Cristo" (1605 ca.), quadro tizianesco di foggia antica, ricco di particolari, la cui composizione fa emergere la sacralità della rappresentazione (visione dal basso, cascata di luce dall'alto), senza tuttavia trascurare gli aspetti "umani" (Maria che toglie lo sguardo dal Figlio, Giovanni aggrappato alla madre). Poi "Il giudizio di Paride", una piccola opera probabilmente "autentica", il cui soggetto fu ripreso più volte dall'artista, e ancora "Il baccanale", con gli straordinari personaggi   (e una pantera) rappresentati a sinistra e una minuziosa natura morta, realizzata quasi sicuramente a piu' mani, fatta di piatti dorati, porcellane e calici, sovrastata da una coppia raffigurata in teneri gesti, quasi estranea all'insieme raffigurato.
"Borea che rapisce Orizia" è l'opera utilizzata per identificare la mostra di Rubens: formalmente ineccepibile dal punto di vista compositivo (il movimento a cerchio tipicamente barocco delle figure nello spazio dell'opera), con  analiticità dei particolari, rappresentazione perfetta della fatica sul viso di Borea e del candore della "rapita" che pare in estasi (come se l'unica resistenza che oppone sia quella dovuta al suo ..peso). Giuliano ci mostra poi alcuni "bozzetti", per sottolineare la perfezione dei particolari e dei movimenti dell'arte di Rubens e  due ritratti - uno sicuramente dipinto da lui, l'altro di scuola: qui ci fa notare come il primo "esprima", mentre il secondo "rappresenti", se pur con grande abilità.
E' poi la volta delle nature morte: lo straordinario tappeto persiano e i dettagli del mappamondo nel quadro di Peter Boel, ostriche, frutta e prosciutto in quello di Jan D. de Heem, lo splendido pavone bianco - morto - tra la selvaggina di Jan Weenix.  Il tutto tra un gioco di panneggi, paesaggi sullo sfondo, nuvole  in movimento, a testimonianza della grande pittura del seicento.
Per concludere, lo splendido autoritratto di Anthonis van Dyck, collaboratore di Rubens, la "pescivendola" di Abraham van Beyeren (tipicamente olandese nella rappresentazione del "quotidiano") e l'inquietante "Iniziazione alla stregoneria" di Davis Teniers il Giovane, che invece ci rimanda alla cupa atmosfera belga.
Rispondendo ad una domanda di Elisabetta Broli, Giuliano precisa che la realizzazione di un quadro poteva durare anche tre/quattro mesi, con un lungo lavoro preliminare di bozzetti e preparazione della tela, sulla quale poi venivano sovrapposti, ogni giorno,  leggerissimi strati di colore. A Corengia chiarisce che il "movimento circolare" del barocco sostituisce, in composizione, quello ortogonale, "ingabbiato" del 400: il palcoscenico si allarga - sino a curvare - sia nei dipinti che nella scultura (ricorda l'elisse del Bernini).
Rubens ebbe grande successo in vita (è una curiosità della giovane Adriana Brenna), anche perché all'epoca gli artisti lavoravano solo per la committenza: nel suo caso, poi, alla notorietà artistica si aggiungeva quella di "uomo pubblico", in continuo peregrinare tra le Corti d'Europa. Ed a questo proposito, su domanda di Eugenio Brenna (l'imprinting artistico del "Vecchio" ha contagiato fortunatamente anche i nipoti!), Giuliano spiega che durante i viaggi la bottega si trasferiva con l'Artista, per soddisfare le esigenze dei potenti e dei nobili presso i quali Rubens soggiornava o semplicemente per continuare ad esercitare "la professione" anche durante le assenze.
Un Federico Canobbio un po' sconcertato prende le difese dell'autenticità del "Ratto di Orizia", ravvisandone una velata messa in discussione da parte di Giuliano: l'opera è senza dubbio originale, sia nella tecnica (su tavola) che nell'espressione massima del barocco, che riassume tutta l'arte fiamminga. Naturalmente Collina concorda, chiarendo la sua osservazione e ribadendo la genialità compositiva dell'opera e l'uso sapiente del colore (la fronte ed i capelli di Borea, l'incarnato di Orizia, la neve lanciata dagli angioletti). Concorda poi con Pomentale, che - richiamandosi al concetto dei "corsi e ricorsi" in arte - vede una sorta di cesura dopo il barocco, (il ritorno al classicismo, secondo Giuliano,  sembra una "dieta").
E' poi Alberto Longatti a ricordare come il barocco sia stato recuperato solo nei primi del novecento: sino ad allora i Fiamminghi erano considerati bravi esecutori ma non artisti, anche per la mancanza di equilibrio nelle forme.
L'abbraccio affettuoso di Federico e Giuliano conclude l'interessante serata.

 

Grazie al nostro Maestro, che ogni volta riesce a suscitare il nostro interesse perché ci si possa "sintonizzare" (come dice lui) con quello che andremo a vedere. E la sua osservazione è tanto vera da far dire - a quelli di noi che non amano particolarmente il barocco - "però.."

Angela Corengia

 

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