"Questioni etiche riguardo il fine-vita " di Maurizio Mori |
Como, 1 marzo 2023 - Lezione aperta in memoria di Franco Bocchietti La relazione del professor Maurizio Mori Intendo qui avanzare alcune osservazioni di tipo filosofico e concettuale circa alcune problematiche etiche che si presentano nel fine-vita. L’obiettivo è di fornire un quadro generale della situazione. Senza entrare nei dettagli, cerco anzi di semplificare nel tentativo di riuscire a condensare in poco spazio una visione complessiva delle questioni in gioco. 1. Cenni sull’etica: la distinzione tra etica di senso comune e etica critica. Dovendo parlare delle questioni etiche del fine-vita, in via preliminare è doveroso cominciare con una parola sulla natura stessa dell’etica o “moralità”, termini che spesso sono usati senza essere precisati, quasi fossero una parola magica per evocare forze speciali. Con etica (o morale: termini sinonimi) intendo quella specifica istituzione socio-psicologica che ci porta a agire spontaneamente e per intima convinzione in un certo modo. Mentre il diritto ci costringe a seguire la norma per evitare la sanzione, l’etica ingiunge di fare il proprio dovere perché è giusto farlo e per nient’altro. Ecco perché l’etica è l’ordito che permea nell’intimo e nel profondo una società e la caratterizza: è quella filigrana che è quasi invisibile, ma modo palpabile e denso indirizza le nostre scelte di vita. Ci sono due livelli di etica. C’è l’etica di senso comune che dà voce al sentire diffuso e irriflesso presente nel gruppo sociale di riferimento: coglie quelle valutazioni presenti nel “si dice” che individua un’opinione ricevuta e data per ovvia e scontata, e che a volte prende corpo in termini del linguaggio ordinario che sono immediatamente valutativi, come quando con sdegno diciamo: “questo è un suicidio!”, “questo è un aborto!”, “ma perché l’utero in affitto!”. C’è poi l’etica critica che individua ciò che è “razionalmente giustificato”, ossia sostenuto da buone ragioni. L’azione non è cattiva semplicemente perché così si è sempre detto, ma perché ci sono ragioni precise che sostengono il punto e che sono individuabili e presentate. I due livelli dell’etica spesso coincidono, perché molte tesi di senso comune sono giustificate da buone ragioni. Per esempio, il disgusto diffuso per l’omicidio e per altri crimini è sostenuto da ottime ragioni. Non sempre, però, è così. A volte le valutazioni dell’etica di senso comune divergono da quelle dell’etica critica. Ci sono vari motivi che possono portare a questo e qui ne ricordo due. Il primo è che spesso le principali valutazioni di senso comune col tempo si trasformano in tabù, ossia un qualcosa di così abominevole da non essere neanche nominabile e che da essere sottratto al dibattito pubblico. Il divieto diventa così interiorizzato e profondo da risultare tanto ovvio e autoevidente da rendere impossibile la semplice richiesta di una qualche ragione a sostegno: è vietato e basta, e chi si azzarda a avanzare dubbi è un infame da mettere al bando. Esemplare al riguardo è stato il caso dell’aborto, termine che in Italia è stato pressoché impronunciabile fino alla sentenza della Corte costituzionale del 1975. La parola stessa era evitata nei discorsi in pubblico e non compariva nella stampa: semplicemente non se ne parlava, ma al massimo se ne alludeva con ribrezzo attraverso cenni o circonlocuzioni. Quando poi il termine è stato sdoganato e ci si è chiesti per quale ragione l’aborto fosse illecito, il discorso è rapidamente cambiato e oggi il Parlamento Europeo ha chiesto di inserire il diritto di aborto nella Costituzione dell’Unione Europea, indice di un cambiamento di segno dell’iniziale valutazione di senso comune. Mutatis mutandis qualcosa di simile sta avvenendo con eutanasia, termine che fino a pochi anni fa era impronunciabile e subito associato ai crimini nazisti. Più in generale, si riteneva fosse sconveniente parlare in pubblico della morte e del morire, quasi che la sola parola evocasse o materializzasse un oggetto di per sé negativo e da aborrire: era ovvio che la morte andasse combattuta sempre e comunque. Sul punto la situazione sta rapidamente cambiando (rispetto ai Per il Rotary Club Como Baradello, 1° marzo 2023 su invito di Johannes Agtenberg tempi storici della longue durée) perché oggi di morte e morire si parla sempre più spesso e in pubblico ci si interroga su come affrontarla. Non appena un tema diventa oggetto di discussione pubblica emerge il secondo motivo alla base della possibile divergenza tra etica di senso comune e etica critica, ossia il fatto che a volte la realtà da affrontare cambia e non se ne ha la consapevolezza. Le condizioni storiche di vita cambiano, ma noi non ce ne accorgiamo e non ne abbiamo contezza, e diventiamo consapevoli del cambiamento solo dopo che esso è avvenuto. È forse in questo senso che va intesa la celebre proposizione di Hegel per cui la filosofia (che dà consapevolezza) è come la nottula di Minerva che esce solo a sera, quando le cose già si sono concluse. È per questo che l’etica di senso comune è per lo più conservatrice e tradizionalista, mentre l’etica critica che è aperta al cambiamento. 2. Del fine-vita e del nuovo modo di categorizzare il processo vitale. La considerazione concernente le circostanze storiche mi porta a passare al fulcro del discorso riguardante il fine-vita. A questo proposito rilevo con piacere che nel titolo dell’incontro la locuzione “fine-vita” è scritta con il trattino, così che non sono più due parole separate in cui la prima qualifica la seconda fungendo da aggettivo (dove “fine vita” senza trattino è come se fosse “vita finale”), ma è una parola sola: fine-vita. Richiamo l’attenzione sul punto perché sappiamo che una parola indica un oggetto o una porzione di mondo, e questo vale anche per la nuova parola fine-vita. Ciò significa che il fine-vita (col trattino) è qualcosa di diverso dalla vita finale. In quest’ultimo caso il nome (vita) indica l’oggetto che poi viene qualificato dall’aggettivo (finale), mentre nel primo caso il nome è fine-vita che sta a indicare un oggetto diverso dalla vita. Generalizzando rilevo come in effetti nel giro di qualche anno (decennio) è cambiato il modo di impostare e categorizzare le questioni bioetiche. Prima si parlava solo di vita o di morte: il mondo era binario e due sole erano le categorie al riguardo: o si era vivi o si era morti, e non c’erano categorie intermedie. L’unica e stessa vita poteva poi essere iniziale o finale, ma si opponeva all’altrettanto unica e stessa morte (che non ammetteva sfumature). Oggi, invece, in bioetica è diventato normale parlare di inizio-vita, di vita o vita-piena, di fine-vita, e di morte. Le categorie non sono più due, ma sono diventate quattro. La creazione di una nuova categoria è un qualcosa di grandioso che cambia il nostro modo di vedere il mondo. A volte ci vogliono secoli di riflessione per delineare una nuova categoria e acquisirne contezza. Per avere un’idea, della rilevanza e complessità del processo basti pensare alla nascita dell’infanzia, descritta da Philippe Aries nell’ormai classico volume Padri e figli nell’Europa medievale e moderna: per noi moderni i bambini non sono più “piccoli uomini” com’era nel Medioevo, ma sono semplicemente “bambini”, ossia una realtà diversa rispetto a quella dell’adulto, tanto che hanno vestiti specifici, alimenti specifici, farmaci propri e via dicendo. Come la modernità ha portato alla creazione della categoria “infanzia”, così oggi stiamo assistendo alla nascita di due nuove categorie: l’inizio-vita e il fine-vita. Qui non posso far altro che menzionare solo alcuni problemi propri dell’inizio-vita: contraccezione, aborto, fecondazione assistita, etica delle popolazioni, etc., mentre cerco di delineare alcune questioni del fine-vita: il nuovo territorio che si incunea tra la vita-piena e la morte. 3. Perché è emerso il fine-vita e gli aspetti strutturali che lo caratterizzano. Il nuovo territorio del fine-vita è emerso per via della Rivoluzione biomedica, ampio processo storico che negli ultimi decenni ha portato a un maggiore controllo della vita e che ha radicalmente trasformato l’assistenza sanitaria: oggi abbiamo diagnosi sicure di malattie degenerative irreversibili, possiamo vicariare e rianimare parti del processo vitale, siamo in grado di procedere con nutrizione e idratazione per lunghi periodi, possiamo effettuare trapianti e fare un sacco di cose per controllare il processo vitale. Il risultato ultimo di queste nuove capacità diagnostiche e rianimatorie fornite dalla Rivoluzione biomedica è che il modo di guardare lo stesso Per il Rotary Club Como Baradello, 1° marzo 2023 su invito di Johannes Agtenberg processo vitale è cambiato. Prima, fino a pochi decenni fa, caratteristica centrale della vita era di essere creativa, imprevedibile e non soggetta a leggi generali. Al medico non erano richieste competenze matematiche, e anzi si diceva che matematica e medicina erano agli antipodi e spesso giovani brillanti ma con scarsa attitudine coi numeri erano portati a dedicarsi alla medicina vista come ambito impermeabile e refrattario ai calcoli matematici. La vita era infatti élan vital, slancio vitale, come diceva Henri Bergson, che in questo seguiva indirizzi diffusi in ambito scientifico. Essere vivi era sinonimo di essere aperti alle novità inusitate e sfuggenti a ogni prevedibilità. In ambito clinico concreto, quest’aspetto centrale della vita portava a dire che anche in presenza di situazioni cupe e disastrate, sempre era possibile che la vita, con creatività stupefacente, se ne uscisse con una ripresa. Innumerevoli sono le narrazioni al riguardo e qui mi limito a ricordare il bel libro intitolato Morte benefica (l’eutanasia), pubblicato nel 1923 – esattamente un secolo fa – scritto da un grande medico laico-evoluzionista, Enrico Morselli, in cui l’autore argomentava contro l’eutanasia proprio sulla scorta dell’incertezza delle diagnosi e la sempre ricorrente possibilità di ripresa. È quest’aspetto che oggi è cambiato. Facciamo fatica a cogliere con precisione i tratti specifici della trasformazione in corso e quindi non è ben chiaro quando esattamente abbia inizio il fine-vita, come peraltro non è chiaro quando finisca. Non posso non ricordare come oggi non sia più chiara neanche la stessa nozione di morte: un tempo era univoca e precisa, e aveva un solo colore, nero. Ora, invece, si scopre che sono diverse tonalità di nero, e anche questo cambia il quadro generale. Il fatto che non ci siano confini netti né circa l’inizio né circa la fine non significa che non esista il nuovo territorio del fine-vita: tra la vita-piena e la morte è emersa una nuova porzione di mondo (o di realtà) che prima non c’era, e che ora merita di essere esaminata e studiata. Quando si ha la vita-piena, in effetti lo stesso processo biologico sembra essere informato a una grande, perenne e imprevedibile creatività, e d’altro canto l’esistenza umana è caratterizzata dalla apertura a nuove infinite possibilità. Vivere è come stare in cima a un dirupo sovrastante il mare da cui ha un orizzonte aperto a tante possibili novità. È quest’apertura al nuovo possibile che rende bello il vivere: l’orizzonte aperto alimenta i progetti, i sogni, le attese che costituiscono il manzoniano “sugo della vita”. Sappiamo tutti che vivere comporta anche momenti tristi e bui, anche terribilmente cupi ma, fintanto che si sta in cima al dirupo e l’orizzonte è aperto, la vita è sempre buona e la morte è il peggiore dei mali. In passato, quando le categorie erano solo due, vita/morte, la persona scivolava dalla posizione-dirupo al mare, passando immediatamente e inesorabilmente dalla vita-piena alla morte. A volte l’imprevedibile creatività della vita provvedeva a presentare appigli che bloccavano la discesa e consentivano una risalita, se non fino alla cima almeno vicino. Sulla scorta di queste condizioni si è formata nell’etica di senso comune la convinzione che la vita è sempre buona, e anche quando è cominciata la discesa c’è sempre la speranza che si possa trovare un appiglio per poi risalire e riprendere la vita-piena. Il problema è che oggi non è più cosi: la situazione è radicalmente cambiata, perché tra il dirupo (vita-piena) e il mare (morte) è emerso un bagnasciuga, il fine-vita. Qui la persona sta semimmersa. tra acqua e terra e non ha più l’orizzonte aperto, essendosi dissolta ogni possibilità di ripresa. In passato si credeva che con un proprio guizzo creativo lo slancio vitale sempre avrebbe potuto ripristinare la situazione ex-ante o qualcosa di simile, ma oggi sappiamo che così non è più. È questo che crea e costituisce il fine-vita, anche se ne abbiamo ancora scarsa consapevolezza per cui ancora prevale l’atteggiamento del passato diffuso nell’etica di senso comune. Ci sono però due situazioni emblematiche del fine-vita che sollecitano la nuova consapevolezza della situazione e fanno emergere distinzioni concettuali decisive per l’intero discorso sulla vita. 4. La “condizione infernale” come un possibile esito nel fine-vita: l’eutanasia è meglio del suicidio medicalmente assistito. La prima situazione emblematica del fine-vita è che il vivere sul bagnasciuga può comportare uno stato di dolore permanente senza speranza di miglioramento. Quando capita questo, la vita diventa peggiore della morte per cui non vale più la tesi ovvia e scontata che la vita è sempre buona e la morte il peggiore dei mali. In questi casi la situazione si capovolge: la morte comporta assenza di ogni dolore (è situazione sullo zero), mentre la vita è sofferenza perenne senza prospettive di remissione (è situazione sotto lo zero), per cui continuare a vivere è peggio che morire. Quando si verifica questo si ha quella che chiamo la condizione infernale, dal momento che l’Inferno è caratterizzato da uno stato di dolore perenne senza speranza di miglioramento. Piergiorgio Welby come Dj Fabo e altri hanno vissuto la condizione infernale, che è analoga alla condizione della tortura a morte, situazione in cui il torturato è tra i tormenti e non attende altro che la morte per uscirne. Pur con tutte le migliori intenzioni (d’altronte è noto che “la strada per l’inferno è lastricata da buone intenzioni”) pare che a volte la medicina crei condizioni infernali simili a quelle che caratterizzavano (e ancora ahinoi! caratterizzano) la tortura. Quando la persona sta sul dirupo con l’orizzonte aperto, certamente vale e è appropriato il giudizio di senso comune che la vita è sempre meglio della morte, ma quando passa sul bagnasciuga può darsi che la situazione cambi,e che la persona entri nella condizione infernale in cui la morte è meglio della vita. Prima è vero che la speranza è l’ultima a morire, dopo vale il contrario: la morte diventa l’ultima speranza, come diceva Sciascia. Questo capovolgimento delle condizioni ha un’immediata importante conseguenza circa la tesi di una “cintura protettiva” della vita sostenuta dalla Corte costituzionale nella Sentenza n. 242/19. Ci vuole e è doverosa questa cintura quando si è nella vita-piena, in cui bisogna cercare di evitare che uno si butti dal dirupo nel mare per via di un passeggero sconforto. Ma è sbagliata nel fine-vita quando la persona si trova nella condizione infernale, perché lì una cintura che “protegge” la vita altro non fa che aumentare il dolore, continuare la tortura, e questo è immorale. Questo capovolgimento della situazione cambia la nozione stessa di “vulnerabilità” e di “fragilità” che è l’obiettivo specifico e proprio della cintura protettiva. Si deve proteggere la persona fragile che si trova nella vita-piena dalle insidie che possono portarla a danneggiare sé stessa togliendosi una vita ancora aperta a possibilità. Ma bisogna ricordare che quando si è nel fine-vita è scomparsa l’apertura a orizzonti e vulnerabile è chi è vulnerabile è tanto inerme da non poter più neanche interrompere la perenne agonia senza dignità in cui si trova. Pertanto, l’analisi dell’etica critica, che valuta le ragioni che giustificano il da farsi nella situazione specifica, ci porta a concludere che nel fine-vita la cintura protettiva deve favorire l’uscita dalla vita, non ostacolarla. Quanto detto suggerisce altre due brevi considerazioni. La prima riguarda la tendenza oggi diffusa in Italia a limitare la morte volontaria al solo suicidio medicalmente assistito. È già positivo che in certe circostanze si ammetta la liceità del suicidio, perché ciò comporta il riconoscimento del principio morale circa la morte volontaria. Ma proprio per questo va detto che il solo suicidio è insufficiente, non foss’altro perché a volte nel fine-vita le persone non sono più in grado di compiere atti, neanche l’ultimo richiesto. Non appena si riconosce la moralità della morte volontaria si capisce anche che la condizione infernale può essere evitata in modo più efficace con l’eutanasia, ossia la pratica in cui la persona che la richiede è aiutata da un terzo che compie l’atto finale. L’altra considerazione riguarda la richiesta di “obiezione di coscienza” alla morte volontaria avanzata da alcuni operatori sanitari. Se è vero che nel fine-vita si dà la condizione infernale, si fa fatica a credere che un operatore sanitario faccia appello all’integrità della professione per lasciare un malcapitato in una situazione di tortura. Una simile richiesta non ha certamente nulla di nobile e non nobiliterebbe la professione sanitaria. Lo “stato vegetativo permanente” come altro possibile esito nel fine-vita: la distinzione tra vita meramente biologica, vita biografica e vita autobiografica. La seconda situazione emblematica che si può presentare nel fine-vita è quella dello stato vegetativo permanente, situazione esemplificata da Eluana Englaro che per oltre 17 anni ha vegetato senza avere più consapevolezza di sé e del mondo esterno. Situazioni come quella di Eluana hanno suscitato sconcerto: respirava in modo autonomo e aveva metabolismo e le altre funzioni vitali, ma non comunica col mondo esterno. È una figura così strana che ancora non sono stati individuati termini condivisi con cui indicarla. Beppino, il padre di Eluana, diceva quella era “una vita che non-è-vita”, con un apparente paradosso. In via preliminare qui voglio cercare di sciogliere il paradosso sopra rilevato, e per farlo credo non si possa far altro che distinguere sensi diversi di “vita”. Sopra abbiamo distinto “fasi” diverse del processo vitale (inizio-vita, fine-vita), ora qui distinguiamo “livelli” diversi di tale processo. Sulla scorta di James Rachels distinguo tra “vita meramente biologica”, “vita biografica”, e “vita autobiografica”, distinzione che riprende in chiave psicologica-storicista la classica distinzione aristotelica in chiave metafisica tra anima vegetativa, sensitiva, razionale (o spirituale). In questo senso con “vita meramente biologica” si intende il solo processo metabolico proprio dell’organismo (vita vegetativa), con “vita biografica” si intende il processo che presenta anche ricordi, sensazioni e progetti di qualche tipo (vita sensitiva), e con “vita autobiografica” il processo che ha anche consapevolezza di sé medesimi e con pensiero astratto (vita spirituale). A parte la fase pre-natale, per la quale ci si è posti da secoli la questione “del momento dell’infusione dell’anima spirituale”, sino ai nostri giorni essere vivi comportava l’inscindibile unitarietà dei tre livelli di vita. Vivere comportava essere dotati di vita biologica, biografica e autobiografica a un tempo: sulla base del processo metabolico la persona ha sensazioni, ricordi, progetti, intenzioni, sogni, etc., cioè quel complesso che chiamiamo “consapevolezza di sé”. Oggi quest’unità del processo vitale può essere scomposta, così che è possibile mantenere il mero processo bio-chimico in assenza di biografia e di autobiografia. Siamo di fronte a una situazione del tutto nuova, pressoché sconosciuta in passato. Situazione che solleva l’interrogativo più generale: che cosa si intende con “vita umana”? È la semplice vita biologica o è quella biografica e autobiografica? E che cos’è che ha valore nella vita? La vita meramente biologica (il respirare e l’avere un cuore che batte) o la vita autobiografica (l’essere presenti a sé)? In passato, nella tradizione teologica, il problema era quello della “animazione” ossia individuare il momento in cui Dio avrebbe infuso nel corpo l’anima spirituale. Oggi, si può dire che il problema che si profila all’orizzonte sembra sia quello della “dis-animazione” ossia individuare il momento (o il periodo) in cui l’anima spirituale lascia il corpo stesso, cioè di quando svaniscono le autobiografie e le biografie. La figura dello stato vegetativo permanente è sicuramente estrema, ma è di grande interesse perché rivela con chiarezza i problemi teorico-concettuali e etici che si presentano nel fine-vita, problemi che si estendono in forme e modalità più blande in una serie di altre situazioni in cui si registra l’irreversibile scomparsa della biografia. I problemi che si presentano sono davvero tanti e qui non posso neanche elencarli, ma mi limito a considerare quello circa la pratica della sedazione terminale profonda o sedazione palliativa continua, che ha impatti clinici rilevanti. In certe situazioni tragiche del fine-vita capita che per evitare al paziente le sofferenze insopportabili si proceda a togliergli permanentemente la coscienza (vita biografica) sapendo di non ridarla mai più. In linea con la posizione prevalente, la maggioranza del CNB ha chiamato questa pratica “sedazione palliativa continua” per indicare che è un intervento analogo a altri richiesti dalla buona clinica. È vero che la pratica è buona, perché toglie il dolore, ma essa chiude anche la vita biografica e pone fine al nucleo centrale della persona. Ciò fa la differenza rispetto a altri interventi clinici, differenza che non si può mascherare dietro un nome suadente. La riflessione sui temi considerati è solo agli inizi, ma non è da escludere che anche in questo ambito del fine-vita si arrivi a cambiamenti analoghi a quelli che, come abbiamo visto, già si prospettano nel caso della condizione infernale. È presto per fare previsioni al riguardo, ma può darsi che anche per queste situazioni i giudizi oggi limitati alla sola etica critica si trasformino presto in opinioni ricevute proprie della nuova etica di senso comune che è in rapida evoluzione. 6. Conclusioni: le intuizioni etiche circa il fine-vita nel mondo che verrà. Ho già ricordato che la nascita di una nuova categoria costituisce sempre un fatto grandioso che cambia il quadro concettuale. In questi anni assistiamo a una ri-categorizzazione della vita (umana). L’avere anche l’inizio- e il fine-vita comporta un nuovo modo di guardare anche alla vita e alla morte. Considerando solo due figure del fine-vita: la condizione infernale e lo stato vegetativo ho illustrato alcuni problemi etici che si presentano nel nuovo ambito. Ora che la nuova categoria è in fase di assestamento, le opinioni dell’etica di senso comune ricevute dalla tradizione sono esse in dubbio da nuove tesi proposte nell’etica critica; ma quando il fine-vita sarà una categoria consolidata (come è ora per noi quella dei bambini) anche l’etica di senso comune si assesterà sul nuovo registro. Le soluzioni circa la morte volontaria che oggi sono scrupolosamente esaminate in casi speciali giustificati con rigore diventeranno scontate, e le attuali attenzioni saranno viste come qualcosa di poco consono (se non di barbaro). Per esemplificare, si cambierà registro come già è capitato con le punizioni corporali ai bambini, che un tempo erano lodate e oggi sono aborrite e vietate, o come è avvenuto con le remore e i dubbi circa l’uguaglianza di genere, e oggi sta avvenendo con l’aborto che, da delitto abominevole sempre vietato, sta diventando uno dei diritti riproduttivi da tutelare e promuovere come vero e proprio diritto umano. È a questo tipo di cambiamento che porta la nascita della nuova categoria del fine-vita, cambiamento cui dobbiamo prepararci con cura e che io valuto positivamente.
Maurizio Mori Professore ordinario di bioetica al Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione e Direttore del Master in Bioetica, Pluralismo e Consulenza Etica dell’università di Torino; presidente della Consulta di Bioetica Onlus e direttore di Bioetica - Rivista interdisciplinare, che ha fondato nel 1993. Coordinatore dal 1985 della sezione Bioetica del centro studi Politeia di Milano, dal 2018 è membro del Comitato Nazionale per la Bioetica. È autore di libri e articoli di bioetica e di filosofia morale pubblicati sulle principali riviste italiane e internazionali.
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